Massimo Adinolfi

Il commento / La cultura delle regole vale più dello sdegno

di Massimo Adinolfi
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Martedì 7 Maggio 2024, 00:26 - Ultimo aggiornamento: 00:28

Di cosa parliamo quando parliamo di infortuni sul lavoro? Di tragedie, spesso, e di vite spezzate. Di morti fortuite o di incidenti colpevoli, di negligenze o di fatalità. Dell’«ennesima inaccettabile strage sul lavoro, a pochi giorni dal 1 maggio», come ha ripetuto anche ieri il presidente Mattarella da New York, che «deve riproporre con forza la necessità di un impegno comune che deve riguardare le forze sociali, gli imprenditori e le istituzioni preposte». Andrà fatta ancora una volta, quella ricognizione, per capire perché sono morti i cinque operai al lavoro nell’impianto di sollevamento delle acque reflue, a Casteldaccia, in provincia di Palermo. E bisognerà ancora una volta ricordare le parole impiegate dal Capo dello Stato in occasione dell’ultima Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro: «la sicurezza non è un costo né tantomeno un lusso, ma un dovere cui corrisponde un diritto inalienabile di ogni persona».
Un fatto di cronaca così grave – cinque morti, un operaio in condizioni molti gravi e due feriti lievi – non consente di aggiungere molto altro: è uno scandalo inaccettabile, e tanto più lo è quanto più dovessero emergere specifiche responsabilità.

Ma se l’emozione può prevalere in simili frangenti, è giusto anche, è anzi doveroso nei confronti di tutte le vittime, parlarne senza superficialità, cercando di capire a che punto è il nostro Paese, in tema di sicurezza e di prevenzione, e che cosa si può fare concretamente, per andare oltre il faro che si accende solo il giorno dopo l’ennesima tragedia, per spegnersi poi lentamente, col passare del tempo.

Ad esempio: ci si può chiedere se la cornice normativa è, nel nostro Paese, adeguata? Credo che abbia senso, infatti, riconoscere che la legge 626 del ’94 sulla sicurezza prima, e il Testo Unico adottato poi, nel 2008, offrano una cornice legislativa avanzata. Si può sempre fare meglio, naturalmente, ma non è sempre una questione di leggi. Ci vuole formazione, ci vogliono controlli, sono necessari adeguamenti, ma dentro un impianto che, in sostanza, funziona. Lo dimostrano – mi pare – le serie storiche dell’Inail, che consentono di apprezzare il progressivo calo delle morti sul lavoro, che nel 2022 hanno toccato il minimo storico. Non è confortante il lieve incremento registrato l’anno scorso, ma in realtà nessuna statistica di questo genere è particolarmente confortante, soprattutto se la si legge a ridosso di un nuovo, terribile episodio infortunistico.

Con ciò non si vuole relativizzare né minimizzare alcunché, ovviamente: le statistiche non servono per tenere una lugubre contabilità, ma per comprendere meglio il fenomeno.

Per capire come si distribuisce il rischio, in quali settori (nel reparto costruzioni il rischio è maggiore), in quali aree geografiche (al Sud più che al Nord), per quali fasce d’età (i lavoratori anziani più dei giovani). Quanto maggiore è la conoscenza del fenomeno, tanto più si vede l’inutilità di certe tirate ideologiche, che purtroppo non mancano mai. A che serve prendersela, per esempio, con i meccanismi infernali del capitalismo, o con il liberismo selvaggio? Qui di selvaggio non c’è niente, e il capitalismo non è solo un modo di produzione sordo a qualunque istanza che non sia il bieco profitto, ma è invece un sistema di organizzazione economica e socio-istituzionale che si sviluppa entro un contesto determinato di regole. Parte di queste regole prende la forma di legge, parte invece è affidata alla contrattazione nazionale, di settore e aziendale; la domanda a cui sarebbe importante rispondere in concreto è: quale di queste parti funziona meglio, su cosa occorre agire, per migliorare il sistema? Un approccio del genere serve a fare esercizio di distinzione. Per capire di volta in volta in capo a chi rintracciare le eventuali responsabilità, se si tratti di fatali leggerezze, di generiche inefficienze, di distrazione dei poteri pubblici, di colpevoli strategie aziendali o di precisi comportamenti criminali. O se si tratti, come spesso accade, di limiti culturali, cioè della svogliatezza – a volte interessata, altre volte semplicemente frutto di inerzia – con cui si implementano determinati processi di messa in sicurezza e di rispetto della normativa.

Non si vuol dire per questo che c’è poco da fare: così va il mondo. Tutt’al contrario: il mondo non va affatto come deve andare, e i margini per ridurre il numero di morti bianche sono ampi, in Italia non diversamente dal resto d’Europa, anche grazie a un progresso tecnologico che rende oggi il lavoro meno ‘sporco’ di un tempo. Ma occorre per questo che il cordoglio di queste ore, dopo l’ondata emotiva sollevata, riproponga l’esigenza di investire risorse sia economiche che, soprattutto, culturali per una più scrupolosa osservanza delle norme di salute e di sicurezza nei sistemi di lavoro.

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