Giuseppe Vegas
Giuseppe Vegas

L'editoriale/ Spesa facile, il dovere di dire no

di Giuseppe Vegas
5 Minuti di Lettura
Domenica 19 Maggio 2024, 00:19

“O io o il superbonus”, sono state queste le tonitruanti parole del ministro dell’economia Giorgetti, quando ha dovuto affrontare le proteste di alcuni riottosi colleghi della maggioranza di governo, che non avrebbero voluto spalmare in dieci anni la deducibilità del mitico 110 per cento, che è deflagrato come una bomba ad orologeria sui nostri già traballanti conti pubblici.
Era ora. Tanto più che i dati ad oggi disponibili sull’andamento del disavanzo pubblico annuale e del debito complessivo sono sempre più preoccupanti, anche in vista della non remota possibilità che il nostro Paese possa essere sottoposto ad un giudizio negativo da parte dell’Unione Europea. Se le conclusioni di Bruxelles saranno quelle di sottoporci ad una procedura di vigilanza rafforzata, dovrà essere posta la parola fine ad una rischiosa stagione, che ha visto una impressionante dilatazione della spesa pubblica, finanziata attraverso la via apparentemente facile del ricorso al debito.
Siamo ormai vicini ai tre trilioni di euro e, per riuscire a trovare il denaro necessario, le nostre emissioni di titoli di Stato sono diventate sempre più generose per i sottoscrittori. E un domani potrebbero doverlo essere molto di più. Già oggi viaggiamo con una spesa per interessi di circa 100 miliardi l’anno: tanto per avere un’idea, è una somma che equivale a circa due terzi della spesa per la sanità. Vero è che pandemia e guerra avevano reso necessario allargare i cordoni della borsa. Obiettivo che è stato conseguito semplicemente attraverso alcuni voti del parlamento, che non li ha mai negati, finalizzati ad alzare l’asticella del debito ben oltre i limiti già stabiliti, tenendo conto delle risorse disponibili, dalla legge di bilancio. D’altronde, anche l’Europa aveva sospeso l’applicazione del famigerato Patto di stabilità. Oggi però quella fase è terminata. L’Unione ha approvato un nuovo Patto, che sostituisce il precedente e che sarà applicato a partire dal prossimo anno. Esso obbliga chi non è in grado di rispettare i parametri prefissati ad adottare pesanti manovre di rientro pluriennali.

La realtà odierna è dunque radicalmente mutata e va ricondotta entro uno scenario di rispetto delle regole generali di contabilità pubblica. Ciò malgrado non si intravede all’orizzonte un’epoca di sonni tranquilli. Agli effetti delle guerre nel giardino di casa, che non sembrano destinate a finire rapidamente, si aggiungono quelli che derivano dalla necessità di riconvertire i nostri sistemi produttivi per contrastare la crisi ambientale, di far fronte alla crisi demografica e alla rivoluzione informatica e dall’esigenza di rendere nuovamente competitivo il sistema produttivo nazionale e l’attrattività dei mercati finanziari. Si tratta di una somma di eventi che, se hanno carattere eccezionale per la loro novità, tuttavia il loro ripetersi e la loro costante presenza non può non farli ritenere ormai come ordinari e destinati a permanere a lungo.

La gestione delle nostre finanze pubbliche non potrà non tenerne conto, ma lo potrà fare solo attraverso un meccanismo di risposta finanziaria ordinaria e non più straordinaria. Per questo motivo, dunque, occorre ritornare ad applicare rigorosamente i principi fissati dalla costituzione e dalla legge di contabilità, che costituiscono l’unico strumento per poter governare saldamente i conti pubblici.

A partire dalla fondamentale questione della copertura finanziaria delle leggi di spesa, prescritta, per volere di Luigi Einaudi, dall’articolo 81, quarto comma, della costituzione. In tutti i casi in cui si vuole approvare una nuova spesa, o un taglio delle entrate, occorre dunque quantificare con precisione quale ne sarà il costo, anche negli anni futuri, e decidere dove si trovano i soldi. Nell’impresa, molte volte si sono dati “ai numeri”: è accaduto per il superbonus, ma già nel 1970, la famosa legge 336, nel concedere la pensione agli ex combattenti, a fronte di una copertura per nove miliardi di lire, si era ben presto tramutata in una voragine. Spesso si è fatto ricorso ad espedienti per celare il costo reale della nuova legge e illudere i contribuenti, facendo credere loro che non ne avrebbero dovuto sopportare l’onere. Ma, come sempre accade, il conto è arrivato, più tardi, ma molto più salato. È il caso, ad esempio, di quando si indicano improbabili entrate derivanti dalla mitica lotta all’evasione fiscale, senza preoccuparsi di recuperarle effettivamente, oppure di quando si spendono i denari che derivano dal miglioramento delle entrate, anziché destinarli a diminuire il deficit. In questo gioco non sono coinvolti solo gli elettori, che pretendono nuove spese a loro vantaggio, e neppure i governi e i loro uffici, quando non sono adeguatamente rigorosi nelle scelte economiche, e neanche, infine, i parlamentari, che cercano il consenso attraverso la leva della spesa pubblica. Si assiste a volte anche ad un certo grado di debolezza da parte dei controllori. Non sempre i presidenti dei due rami del parlamento hanno espunto dai testi in discussione le norme dotate di flebile copertura finanziaria, oppure estranee alla materia della legge di bilancio. In questo modo, tra l’altro, è stato reso più difficile l’esercizio del potere più “pesante” messo dalla costituzione nelle mani del Capo dello Stato, quello del rinvio al parlamento delle leggi che siano, a suo avviso, in contrasto con la costituzione, in questo caso per mancanza di copertura finanziaria. Naturalmente, si tratta di un potere da esercitarsi con sobrietà e saggezza, dato che potrebbe far nascere una crisi istituzionale. Tuttavia, anche la sola minaccia di esercitarlo può costituire un importante atto di moral suasion, per evitare che prevalga il partito della spesa facile, a danno dei contribuenti indifesi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA